Un argomento sempre molto dibattuto, specialmente negli ultimi anni, è quello che riguarda i lieviti in enologia.
Lieviti selezionati e fermentazioni controllate o lieviti indigeni e fermentazioni spontanee?
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
I lieviti sono funghi unicellulari aventi forma sferica, ovale o ellittica.
Microrganismi che intervengono durante la fase di fermentazione, processo per mezzo del quale, attraverso gli enzimi, trasformano gli zuccheri in alcool etilico e anidride carbonica. I prodotti secondari sono la glicerina, l’acido acetico, l’acido lattico e quello succinico, alcoli ed esteri che contribuiscono a caratterizzare l’aroma del futuro vino.
Per il principio di conservazione di energia, durante la fermentazione si osserva anche un aumento importante della temperatura.
Questa è una fase estremamente importante nel processo di vinificazione, in quanto anomalie nell’andamento della fermentazione, come eccessivo aumento della temperatura o inibizione di alcuni lieviti, possono portare ad un’alterazione irrimediabile del fermentato e, di conseguenza, ad un vino con dei difetti, sia all’olfatto che al gusto.
Nel settore enologico, i lieviti più importanti sono del genere Saccharomyces cerevisiae.
Esattamente quelli che si usano per la panificazione, il cosiddetto lievito di birra.
Se si analizzano gli acini dell’uva si può riscontrare la presenza di diverse famiglie di lieviti. Quando l’uva è immatura c’è una piccola concentrazione, mentre, quando si arriva a piena maturazione, gli zuccheri aumentano e così pure la concentrazione di lieviti.
Lieviti indigeni
Indubbiamente i lieviti indigeni rivestono un ruolo importante, in quanto sono anch’essi responsabili della peculiarità di un vino (così come il terreno o il microclima). Rappresentano il territorio di provenienza e, andando ancora più nello specifico, si trovano nell’ambiente circostante del vigneto e della cantina di un produttore. Per fare una similitudine, è quello che rappresenta il lievito madre (tramandato di generazione in generazione) per un panettiere. Se coinvolgiamo nel discorso anche i batteri, vengono in mente le grotte e le cantine di stagionatura che rendono così unici i formaggi.
Le famiglie di lieviti indigeni si possono suddividere in diverse tipologie ma, principalmente, si individuano quelle che predominano sui grappoli immaturi (Torulopsis, Cryptococcus, Rhodotorula) e quelle che si concentrano sui grappoli maturi (come i lieviti apiculati a metabolismo ossidativo Hanseniaspora e Metschnikowia, assieme ai generi Saccharomyces e Zygosaccharomyces). Il principale agente della fermentazione, Saccharomyces cerevisiae, viene spesso rilevato a bassissime concentrazioni sul grappolo.
Lasciando lavorare i lieviti indigeni si ottengono le cosiddette fermentazioni spontanee, utilizzate per la produzione di vini naturali. Questi processi richiedono di sicuro una particolare attenzione. Può succedere che ci sia un blocco momentaneo della fermentazione o che prevalga una famiglia di lieviti che causa degli odori sgradevoli.
Trovarsi davanti ad un processo poco controllabile può essere spiacevole ed è per questo che, negli anni, “si sono sempre più utilizzati i lieviti selezionati, cioè particolari ceppi di Saccharomyces cerevisiae che possiedono specifiche peculiarità, conosciute a priori, estrinsecate ed evidenziate con la loro attività nel mosto in fermentazione: il loro utilizzo permette di conseguire un risultato qualitativamente interessante.”
Lieviti selezionati
Il lievito Saccharomyces cerevisiae è scarsamente presente nell’ambiente e, generalmente, anche all’interno dei mosti, dove avviene una lotta per la sopravvivenza tra le varie famiglie di lieviti.
L’industria ha così sviluppato molti prodotti che si adattano alla tipologia di vino che si vuole produrre: vini bianchi, frizzanti, spumanti, vini rossi giovani o da invecchiamento… Vengono aggiunti solfiti al mosto prima della fermentazione, così da eliminare a priori alcune famiglie di lieviti non resistenti, evitare l’ossidazione e lo sviluppo di batteri. (Leggi l’articolo sui solfiti)
Può sembrare strano, ma il procedimento è veramente molto simile a quello utilizzato per fare il pane o la pizza.
“Si utilizzano lieviti secchi, che devono essere opportunamente preparati ed attivati: prima di tutto, i lieviti devono essere dispersi in piccole dosi in un contenitore di acqua a 35-40°C, lasciandoli idratare spontaneamente; dopodiché, i lieviti vanno immessi nel mosto da fermentare; meglio ancora, sarebbe immettere i lieviti reidratati in un piccolo contenitore colmo di mosto, in modo da attivarne l’attività fermentativa, e successivamente inserirli nell’intera massa di mosto.”
Per un ulteriore approfondimento visita questo link.
Parola ad un enologo
Come dicevamo, questo è un argomento molto discusso e ci sono innumerevoli opinioni e interviste ad enologi che spiegano le loro motivazioni a favore della prima o seconda scelta. Ci tengo a riportare alcune frasi di Franco Giacosa, storico enologo ora in pensione, che ha cambiato idea quasi a fine carriera.
“Per quel che ricordo negli anni ’60 i lieviti selezionati si usavano pochissimo e solo per problemi di fermentazione difficile o rifermentazioni. Per la mia esperienza l’uso abituale dei lieviti selezionati, sotto forma di lieviti secchi attivi, si è diffuso durante gli anni ’70. Già negli anni ’80 quasi tutti i protocolli di vinificazione delle aziende medie e grandi ne prevedevano l’uso sistematico.
L’obiettivo iniziale era quello di evitare arresti di fermentazione o fermentazioni anomale sempre più a rischio a causa dell’utilizzo di antibotritici o antiparassitari in genere. In seguito comparve anche l’obiettivo di conferire ai vini alcune caratteristiche particolari sopratutto per quelli ottenuti da uve di modesta qualità.”
“Dovremmo fare tesoro di molti aspetti che un tempo erano tenuti in grande considerazione. Ad esempio l’impianto dei vigneti esclusivamente nelle aree vocate alla coltivazione della vite, la conservazione della fertilità naturale del suolo, la cura nell’impianto e nella gestione del vigneto per ottenere uve di qualità che non richiedano interventi impattanti in cantina.”
Ad una domanda riguardante i difetti riscontrabili in un vino risponde così:
“Buona parte dei difetti che si possono riscontrare nei vini, a mio avviso, sono dovuti per prima cosa alla qualità delle uve; con una buona uva, (sana, ben matura ed equilibrata) bisogna impegnarsi per fare del cattivo vino.
In secondo luogo alla trascuratezza, nelle fasi di vinificazione e affinamento dei vini, delle semplici norme di elementare enologia basate sulla conoscenza e sulla cura meticolosa e non interventista da applicare con tempismo e precisione in ogni fase della produzione.”
(Trovate l’intervista completa su questo sito.)
Considerazioni finali
La prima considerazione: il vino si fa da circa 8000 anni (si avete letto bene!) e la cultura si è diffusa partendo dall’attuale Georgia.
E’ possibile che venga considerato convenzionale un metodo produttivo che si è imposto dagli anni ‘70, cioè da poco più di cinquant’anni?
Seconda considerazione importante: per vinificare in modo più naturale possibile, utilizzando solo lieviti indigeni, è indispensabile avere un terreno vivo, una gestione meticolosa della vigna ed escludere completamente prodotti chimici di sintesi.
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Viva la cultura del vino!